lunedì 2 novembre 2009

Una lingua nuova per il vecchio popolo sardo

di Franco Pilloni

Parlerò della lingua sarda, premettendo subito che non sono un linguista, né socio- né glotto-, né autentico, né pseudo, e nemmeno riciclato, inventato o sedicente come tanti che si sono occupati della vexata questio nell’ultimo decennio. Cercherò solamente di ragionare sulla lingua sarda parlata, infischiandomi altamente della grafia e di tutto quanto è stato escogitato e proposto da più parti per la maggior desolazione dei sardo-parlanti. La mia proposta, che riconosco non priva di velleità, prende le mosse da constatazioni che parrebbero ovvie ai più, che risultano però, ancora per il momento, non essere state messe in evidenza da nessuno, e tende a far salire di un qualche gradino lo spirito dei sardo-parlanti nella scala della felicità.
La prima e più importante osservazione è quella lampante che indica la vocale “u” come la più rappresentativa della parlata sarda, quella che la connota anche al di fuori del suo contesto, ritrovata spesso in finale di parola, ma anche al centro o come iniziale, certamente in proporzione maggiore nel confronto con le altre lingue sorelle o cugine, come l’italiano, lo spagnolo o il francese. Forse a reggere il paragone resta la lingua romena, e non a caso.
Per pronunciare la vocale u, basta osservarsi davanti allo specchio, bisogna allungare le labbra in avanti, stringerle lasciando un foro modesto ed espirare. In poche parole, è come parlare facendo il broncio, ovvero emettere un mugugno (si osservino, anche in italiano, le due sillabe consecutive con la u, che danno tono e senso alla parola). Ebbene, in sardo i vocaboli maschili, nomi, aggettivi, pronomi, nella stragrande maggioranza non solo terminano in u, ma volgono le o in u anche al loro interno, come populu per dire popolo, poburu per povero, genugu per indicare il ginocchio, fenugu per dire finocchio, tutturu per matterello, duru-duru come ninnananna, e ancora e ancora.
Io credo, ma lo riferisco come mia impressione, che la dimostrazione più eclatante di questo fenomeno linguistico e antropologico insieme sia quella della scelta del vocabolo che riporta a quel complesso moto dell’animo che in italiano indichiamo con “rammarico”, in francese e inglese con “regret” (più o meno accentato), ma in sardo con “surrungiu”. Una parola con un suono emotivamente pregno, provare a pronunciarla con quella doppia erre fortissima com’è nella parlata corrente dei sardi, sonora certo ma che costringe ad allungare vieppiù il broncio, così che l’espressione del viso riflette compiutamente il significato della parola. Surrungiu: una parola, un suono che fa triste anche uno che è morto dal ridere!
Una seconda constatazione viene dalla cultura popolare o, se si vuole, dall’esperienza scientifica secondo le quali il bisogno crea l’organo o, sempre se si vuole, l’uso rafforza lo strumento, in questo caso i muscoli facciali interessati ad atteggiare la mimica alla pronuncia della vocale u. Per questo motivo, quei muscoli, anche da rilassati, restano i più tonici fra le varie decine che regolano i movimenti facciali, a causa dell’uso continuo e sproporzionato rispetto a tutti gli altri, così che il viso stesso, nella sua espressione più usuale e permanente, diviene quello di chi è preparato, atteggiato, predisposto a pronunciare una bella u. Un sardo-parlante è surrungiosu, rammaricato quindi, e appare visibilmente come una persona che soffre, che non distoglie l’attenzione su quanto lo tiene in sofferenza e, ammesso e non concesso che abbia cullato l’intenzione di far buon viso a cattiva sorte, gli verrà fuori un sorriso o un riso che di allegro ha poco o proprio niente. Si sta parlando evidentemente del famigerato “riso sardonico”, una locuzione che ha attraversato inopinatamente popoli e culture, oltre che secoli di storia, ed è giunta improvvidamente nuda alla meta, carica di molte supposizioni e di nessuna certezza sull’effettivo significato, identificato come un’espressione del viso, e delle labbra in particolare, atteggiato a riso ma che indicherebbe una interna devastante sofferenza, un sarcasmo portato all’eccesso, una finzione che si illude di illudere l’osservatore, ma che non convince neppure il soggetto. Questa era la maschera facciale, secondo un’antica leggenda, che, al ritorno dalla sua missione di morte, assumeva l’incaricato del dirupamento del vecchio del clan, diventato ormai peso morto, evidentemente visto solo una bocca da sfamare. L’aiuto pare che gli venisse dall’aver assunto un’erba velenosa che cresce spontanea nelle gore umide e nelle rive dei ruscelli di Sardegna, che produceva (e ancora produce) spasmi facciali tali da poter essere interpretate come risate, grottesche quanto basta per essere in linea con il tenore della missione portata a buon termine.
Ecco allora come la lingua parlata da una popolazione può influire su di essa determinandone l’indole, oltre che il grado di soddisfazione che essa trae da quello che possiede, da quanto si adopera a fare e a costruire, dai risultati medesimi dell’operare combinati con quanto il destino ha predisposto. In una parola sola, la parlata determina la felicità di un popolo.
Si spiega come, quando un sardo-parlante, predisposto a un’espressione grave del viso, se non proprio di rammarico, incontra un altro sardo-parlante, fra di essi vi è uno scambio di informazioni non certo euforiche tramite il linguaggio del corpo. E quando si contraccambiano le informazioni di rito (Come va? Come stai?), si risponde con un mezzo sorriso, quando tutto va per il meglio, ma con un uhm! sulle labbra, un sorriso col broncio dunque che più che sardo pare sardonico. Quando infatti si vuole esagerare con l’ottimismo, non si va mai oltre un “no inc’est mali”, “non c’è male”, seguito immancabilmente da un “po is oras”, “per queste ore” alla lettera, indice indiscutibile della coscienza della precarietà della vita che per il futuro non può non riservare che il peggio. “Non c’è male, ma bada che lo sto dicendo in riferimento al momento presente, non ti illudo per il dopo”.
E se si facesse fatica a credere al rammarico dei sardo-parlanti per l’incombere dell’infelicità individuale e collettiva (comunque può venire a piovere, anche se vedi splendere il sole!), ci si metta alla prova con quel gioco per cui due si guardano in faccia senza parlare, dove perde colui a cui scappa da ridere per primo. Se avrete la sfortuna di essere di fronte a un sardo-parlante, prima di tutto ricordatevi di non scommettere più di quanto basta per una bevuta, dato che vi chiederete immediatamente che cosa ha da essere così serio e imbronciato il vostro avversario, di cosa si stia rammaricando, … bene, avete già dato la stura alle vostre fantasie interpretative che vi porteranno al disastro in quanto vi presenteranno una situazione comica irrefrenabile, quando quello lì, giusto di fronte a voi, sembra avere il cervello surgelato, oltre che la faccia triste.
Cambiare la lingua ai sardo-parlanti dunque è un doveroso atto di governo per salvarli dalla tristezza e dall’afflizione, dal surrungiu, dal rammarico costante e sempiterno derivante dalle innumerevoli u dell’isolana parlata. Ma c’è di più: in tempi problematici per l’economia italiana, europea e mondiale, un viso da surrungiu è quanto meno politicamente scorretto, oltre che controproducente, come ripete spesso (anche troppo) e volentieri Colui che più ha, più sa, più può, più parla, più … tutto, poiché la crisi si combatte prima di tutto con l’ottimismo e col sorriso.
Parole queste che non contengono neppure l’ombra di una vocale imbroncievole come la u.

2 commenti:

Paola Alcioni ha detto...

E bravu Francu, bellus pensamentus, m'est praxu meda.

Anonimo ha detto...

po no chistionai de "murrungiu"..

Unu chi pensat in sardu ddu connoscis a sa facci, mancai siat citiu.